Prima dei miei vent’anni, folle solitario e finale qual ero ma sempre di buon umore come forse tutti gli sciocchi, non perdevo un solo articolo di Pasolini sul Corriere. Ma leggevo anche il settimanale Tempo quando capitava, che alternavo all’Espresso o Panorama e ancor prima all’Europeo della Fallaci. Erano le mie boccate d’aria rispetto alla prosa plumbea di Rinascita a cui ero stato abbonato dalla sezione “Carlo Marx” di Fossa Creta di cui ero segretario della FGCI, in quanto riconosciuto giovane borgataro meritevole di attenzione, segnalato a tal proposito dal compagno Bentivogli, funzionario di Reggio Emilia, spedito in Sicilia dal Partito per questo delicato lavoro politico nelle borgate del Sud irredento. (Questo faceva il grande PCI, ma aveva anche tanto “oro di Mosca” come scrisse il compagno Cervetti, e poteva permettersi una pletora di funzionari-missionari).
Leggevo Pasolini, dicevo, i cui articoli, apparsi nei giornali dell’epoca, sono stati poi raccolti in Scritti corsari, Lettere luterane, Caos, Le belle bandiere. Tutti libri nelle edizioni coeve che possiedo ancora, ma a cui raramente ritorno. Lo leggevo perciò in diretta e lo leggerò in seconda battuta, in sedimentazione editoriale per così dire. Il compagno Bentivogli non lo amava e non ho capito mai perché, forse nel Partito gravava qualche Niet su Pasolini, come su altri innominabili, non so Silone, Orwell, Koestler: il Partito “sapeva” e aveva il suo “Indice” segreto evidentemente di intellettuali eretici o semi eretici. Io ne ero invece stregato, anche perché Pasolini andava spesso in tv ed era su tutti i rotocalchi per i suoi film scollacciati. (Quelli della “trilogia della vita” dai quali abiurò, vedi Lettere luterane). Ero fortemente preso dalla sua figura di intellettuale umiliato e offeso, da quel viso scarno e sofferente, dalla sua parlata serrata e puntuta. Non le mandava a dire, era un indignato in SPE, come gli ufficiali arruolati in Servizio Permanente Effettivo. Come suo padre ufficiale di carriera.
Successivamente ho preso le distanze dai suoi scritti, ma soprattutto dalla sua intonazione spirituale. Sul versante dei contenuti poco mi ha convinto il suo anatema dei consumi. E lo rivolgeva a mmmia? Che non c’avevo di che mangiare? Che sognavo i buondì Motta? Che ardevo dalla brama di sostituire la nutella a quella crema incolore di surrogato di cioccolato che la merceria della Signora Mimma con le tette belle vendeva sfusa prelevandola da un barattolone e che avvolgeva in una putrida carta oleata? Io? Mille volte avrei voluto subire quella ambitissima per me, odiosa per lui, “mutazione antropologica” dei consumi. Mille volte mi sarei mutato antropologicamente. Mille lucciole avrei ammazzato per un cucchiaio di santa nutella. Uno sterminio avrei fatto.
Ma anche l’intonazione spirituale di Pasolini cominciò ad andarmi in uggia. Due parole-chiave, in seguito ad altre letture e per triangolazione interna tutta mia, cominciai a guardare con sospetto e poi con insofferenza. La parola “fascista” appiccicata su ogni aspetto della realtà che non gli piaceva come un termine talismano (che però gli procurava immediate simpatie dal grande pubblico ideologizzato di allora) usato da lui in maniera metastorica ma già indigesta, con quelle sfumature generiche e svalorizzanti, a chi come me già leggeva Angelo Tasca e la sua interpretazione del fascismo storico. Nella sua visione ovviamente – “fascista” – era anche l’omologazione culturale impressa all’innocente popolo italiano dalla fascistissima società neocapitalistica (Innestando nel senso comune il paradigma, che tanti successi elettorali porterà ai grillini di ieri e di oggi e di domani, di una Politica “corrotta” e degli italiani – quelli che si lampeggiano quando vedono la polizia o frodano il frodabile – sostanzialmente “buoni”, non complici dello scasso, ma vittime).
Altro termine da cui presi le distanze in seguito fu “Palazzo”. Nella sua terminologia assumeva l’accezione che Marcuse dava al “sistema” come un “tutto repressivo”, come una specie di invisibile Nous capitalistico teso ad “amministrare” le coscienze anche con dosi massicce di consumi al fine di procurarsi con questa specifica “desublimazione repressiva” masse satolle, soddisfatte e domate, non più ribelli. Ma questo “Palazzo” non era un “predicato senza soggetto”, come Michael Walzer (cfr L’intellettuale militante, Il Mulino, 2002) rimproverava a Marcuse per il suo Sistema, no, nella visione di Pasolini aveva nome e cognome: Democrazia Cristiana da lui in sostanza additata quale responsabile del pervertimento del popolo italiano, che bisognava trascinare in tribunale e processare. Lui sapeva i capi d’imputazione ma non ne aveva le prove. La prosa di Pasolini si caricava perciò di un pathos tanto immenso e affliggente quanto astratto e senza limiti. Ai limiti del complotto era la sua moralità leggendaria, intransigente e senza cedimenti. Il colpevole? Il Palazzo!