Come non commuoversi, ogni anno di nuovo, quando la liturgia statale ripropone il ricordo della strage di Capaci e, qualche settimana dopo, quella di Via d’Amelio? È quantificabile il debito che una collettività nazionale può sentire nei confronti dei propri eroi patrii, per chi ha pagato con la vita il semplice fatto di aver voluto perseguire senza compromessi – sempre cosciente del pericolo in cui incorreva – la legalità e il senso civico? Falcone e Borsellino sono eroi dello Stato, non vi è alcun dubbio. Hanno eroicamente condotto la propria funzione di magistrati antimafia, dando altrettanto eroicamente la vita per il proprio paese. In cambio hanno ricevuto una canonizzazione ad honorem, laica e repubblicana. La loro morte è una ferita aperta nel cuore della Repubblica, che ogni primavera zampilla di sangue vivo, incupendo con tristezza reverenziale lo spirito nazionale.
Ma da dove nasce l’esigenza dello Stato di beatificare due dei suoi cittadini, morti nella lotta alla mafia, attraverso tutti i mezzi della propaganda che possiede – dalle gigantografie sui muri e le retrospettive della RAI, fino alla toponomastica e la genuflessione a favor di telecamera delle cariche dello Stato? Non risulta il tutto un po’ forzato e ridicolo, poi, se si considera la connivenza, per quanto presunta, tra Cosa Nostra e lo Stato, quello democristiano se si vuole prestar fede alle persuasive dietrologie, quello berlusconiano se si vuole prestar fede all’evidenza (sempre che Dell’Utri non fosse solo estremamente affabile e benevolo verso i suoi conterranei, che l’agenda rossa di Borsellino non fosse solamente piena di trascurabili promemoria e che Mangano non fosse semplicemente molto bravo con i cavalli).
C’è un motivo per il quale si intitolano aeroporti a Falcone e Borsellino, si dedicano loro murales e si indicono concerti a loro nome, e non alle tante altre vittime, non soltanto innocenti, ma anche coraggiose della mafia. Primo fra tutti Peppino Impastato, che quell’aeroporto di Punta Raisi (in seguito alle stragi ribattezzato “aeroporto Falcone e Borsellino”) lo aveva denunciato quale asset imprescindibile per i traffici di Badalamenti, oltre che esproprio violento delle terre contadine e luogo geograficamente inadatto, per via dei forti venti, ad ospitare uno scalo. Certo, erano anni diversi e Impastato non era una carica dello Stato, né possedeva di quest’ultimo una concezione particolarmente lusinghevole. Per quanto la sua lotta alla mafia non manchi di dettagli esemplari, seppur non in nome del terzo potere dello Stato, la sua agiografia è stata affidata alla famiglia o alla critica indipendente, e la politica istituzionale se ne è pressoché del tutto lavata le mani.
Nel caso di Falcone e Borsellino, invece, lo Stato si è inserito a dirigere, in modo più che contraddittorio, la risposta dal basso alle stragi di Capaci e via D’Amelio, che già a ridosso della morte di Falcone prendeva slancio in movimenti come quello dei “lenzuoli bianchi”. Non si tratta solo del fatto che i due magistrati sono stati uomini di Stato, quindi schierati dalla parte di quest’ultimo, tenuto perciò a proteggere e osannare i propri eroi morti in battaglia (non prima però di essere stati abbandonati in vita). Il fatto è che, in verità, fa comodo a tutti, in generale, avere delle figure di riferimento dall’alto valore simbolico, delle pratiche o dei termini scudo da poter usare per disimpegnarsi dalle critiche, con affermazioni e dichiarazioni a rischio zero. Nel film di Franco Maresco La mafia non è più quella di una volta, pregevole sequel di Belluscone, la ridicola retorica istituzionale a favore dei due magistrati assassinati negli anni ’90 raggiunge un parossismo suggestivo, con l’intramontabile Ciccio Mira incaricato di organizzare un concerto neomelodico in memoria di Falcone e Borsellino, allo ZEN di Palermo, che si rifiuta però anche solo di dire che la mafia sia “una brutta cosa”. Farsa periferica e secondaria, il cui tenore però ricorda quella centrale e istituzionale, messa in scena per esempio con gli inchini e gli omaggi dei leader politici alleati o appartenenti a Forza Italia, davanti alla lapide commemorativa di Capaci.
Gli slogan e le figure santificate servono a tutti coloro che pretendono coltivare l’aspetto simbolico del potere, ovvero liberato del fardello del compromesso con la realtà. In generale è buona norma che chiunque voglia illudersi che i propri pensieri e i propri sentimenti non siano eterodiretti a beneficio di altri, cominci a storcere il naso ogniqualvolta un’organizzazione dotata di potere – che sia lo Stato, un’azienda, una lobby, o un collettivo – riservi a un essere umano gli onori che le polis greche riservavano ai propri condottieri, la chiesa ai propri santi e le pubblicità ai propri prodotti.
“Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi”, perché all’eroe è delegato il modello di superuomo che incarna le virtù dell’eccezionalità, il coraggio, la purezza, l’abnegazione, il sacrificio. Agli eroi si può delegare l’arduo compito dell’individuazione, del riconoscimento e della lotta contro il nemico.
Gli eroi sono carne sacrificale, e perciò spesso sacrificabili e strumentalizzabili, utili a tracciare quella dicotomia retorica del male contro il bene, estremamente funzionali nella costruzione del nemico. Identificare un nemico è indispensabile nel processo di auto-identificazione come afferma anche Umberto Eco nel pamphlet Costruire il nemico. «Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto, quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo.»
L’identificazione di un nemico diventa rilevante anche a livello sociale compattando le masse verso direzioni comuni, consolidando convinzioni e modelli cui appartenere e tracciando una linea netta tra il bene e il male. Falcone e Borsellino sono il corpo e le vittime sacrificali dello Stato e diventano presto funzionali alla costruzione e al rafforzamento della narrazione di esso quale garante della legalità contro le minacce del nemico, rappresentate dal fenomeno mafioso.
Falcone e Borsellino sono quindi gli eroi, i martiri, i morti esemplari di cui lo Stato aveva bisogno per quella che Furio Jesi definisce la “macchina del mito” nel saggio sulla cultura di destra. La cultura di destra sarebbe la cultura in cui «il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare […] nel modo più utile, […] in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari», in cui «esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola». Se queste parole sono: Legalità, Patria, Tradizione, Nazione, allora Falcone e Borsellino diventano materiali mitologici d’uso e consumo, «variamente manipolati, manipolabili e quindi “tecnicizzati” cioè usati per scopi contingenti» estremamente efficaci per la macchina che strumentalizza determinate immagini rendendole mitiche e trasformandole in strumenti di mobilitazione e azione.
Ma se analizziamo la genesi dello Stato italiano e del fenomeno mafioso sarà facile riflettere e comprendere su quanto sia fragile e ingannevole l’ideologia che vuole lo Stato come un moderno Ercole contro l’idra dalle molte teste della criminalità organizzata. Era ciò che affermava anche il magistrato Rocco Chinnici, fondatore del primo pool antimafia, il quale sosteneva che il fenomeno mafioso – ovvero di una struttura organizzata con rapporti sia con il potere costituito, ma anche con la popolazione, per la quale si prestava a risolvere i problemi come una specie di tribunale speciale – emerge e si rafforza con l’unità d’Italia, per il vuoto lasciato dalla cacciata dei Borboni e la successiva marginalizzazione del Sud Italia trasformato in realtà periferica dalle politiche del nuovo Regno.
Non ci interessa tracciare un’ipotetica origine del fenomeno in quanto l’origine è un momento sempre inventato ex post e quindi poco significativo, ma è sicuramente interessante comprendere come la Sicilia e il meridione siano territori e contesti culturali in cui lo Stato costruisce dal principio la propria identità e mitologia. In essi, più degli altri territori nazionali, esso gioca la partita della sua identità, calcando in profondità, rimarcando i propri attributi morali e comunitari. Lo si può vedere in particolare nella statuaria, nella toponomastica e nelle iscrizioni comunali. Più che altrove in meridione spiccano le statue di Garibaldi, le “via Roma”, le targhe onorarie con cui “i cittadini” ringrazierebbero i piemontesi o i rivoltosi antiborbonici. Come la presenza di una legge in un ordinamento giuridico del passato ci informa dei crimini che più comunemente venivano commessi, così le onoranze municipali permettono di capire quali concetti il potere costituito si sente costretto a ribadire, in evidente opposizione a quello che deve essere il sapere comune o l’opinione diffusa.
E’ interessante e tragicomico poi assistere alla sovrapposizione continua di Stato-mafia-antimafia, che rischia continuamente di sabotare l’immagine mitica della Legalità dell’apparato statale; politici accusati di associazionismo o collusioni mafiose, personaggi dell’antimafia del movimento anti-racket accusati di praticare estorsione o che hanno approfittato dell’antimafia per creare sistemi di gestione clientelari per l’amministrazione di beni e imprese confiscate per mafia (come Montante, l’ex presidente di Sicindustria, o Diego di Simone capo della security di Confindustria…), o il caso recente dell’ex pm Gioacchino Natoli, ex componente dello storico pool antimafia di Falcone e Borsellino accusato dalla Procura di Caltanissetta di favoreggiamento aggravato alla mafia per il filone dell’inchiesta mafia-appalti.
Servono a questo quindi le commemorazioni, il giorno di lutto nazionale e della memoria, le genuflessioni, gli inchini, le parabole, i manifesti, le gigantografie sui muri, la santificazione, perché in questo palude melmosa, dove si sfuma il confine tra bene e male, vittime e carnefici, Falcone e Borsellino sono simboli unificanti, referenti morali che restituiscono l’immagine dell’impegno e il sacrificio nella lotta al nemico e di un’immagine positiva e integra dello Stato, che esso, per sua natura, non può avere.
C’è quindi un evidente beneficio retorico nell’aver promosso la commemorazione di Falcone e Borsellino come condizione sufficiente per diradare i dubbi circa l’opinione di qualcuno nei confronti della mafia, dello Stato e del rapporto che tra essi intercorre, beneficio con cui capitalizzano consensi e approvazione buona parte dei politici italiani. È una dinamica che ricorda le campagne promozionali della polizia contro la violenza sulle donne, o l’amore per la natura professato dalle multinazionali di fastfashion.
Oltre a ciò però non si può non considerare lo strumento politico che lo Stato ha estratto dalla strage di Capaci e di via D’Amelio, per conservare il quale si prodiga nella santificazione dei due magistrati e nella sfumatura degli aspetti problematici delle loro carriere e delle loro attività. La lotta al nemico apre la possibilità per lo Stato di vivere in un perenne stato d’emergenza o d’eccezione che genera l’opportunità di adottare misure straordinarie che diventano ben presto ordinarie ed estendibili, volte a rafforzare il controllo e la repressione dell’apparato. L’idea della lotta contro la mafia gioca la sua capacità attrattiva sulla semplificazione di un mondo nel quale la linea di confine materiale e morale tra giusti e ingiusti sono ben identificabili. Solo un’opinione pubblica italiana profondamente scossa ed emotivamente coinvolta avrebbe potuto concedere che il Parlamento desse seguito alle ambizioni di Falcone di disporre di uno strumento giuridico, tanto efficace quanto crudele e incostituzionale, come il 41-bis, il carcere duro.
Per chiudere gli anni di piombo palermitani e avviare il processo di bonifica turistica della città di Palermo si è deciso di combattere la mafia corleonese, distintasi per crudeltà e tracotanza, rinunciando alla propria posizione alternativa a essa, scendendo al compromesso della violenza, dettato dall’emergenza, e usufruendo del proprio potere liberato dai limiti astringenti della carta dei diritti universali dell’uomo e dell’idea del carcere riabilitativo. Perché il 41 bis e il carcere ostativo, nonostante siano stati dichiarati pratiche di tortura dalla Corte europea dei diritti umani, poiché violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sono disposizioni ancora presenti nell’attuale ordinamento giuridico. In principio destinate ai soli mafiosi e nel tempo estese anche ai terroristi, (altra “idea senza parole”), esse sono un chiaro esempio di come l’eccezione diventi la regola e l’emergenza sia l’altare sul quale i diritti diventano merce spendibile e sacrificafibile in nome della lotta al crimine.
Nella vita reale esistono persone animate da un coraggio esemplare, come Falcone e Borsellino; gli eroi, invece, appartengono al mito e alla retorica, ambiti in cui è concesso il lusso della semplificazione. Si tratta di scoprire, ogni volta di nuovo, quale forma di potere viene legittimata attraverso l’idealizzazione eroica della vita di un essere umano, quale mezza verità bisogna mistificare, e quale insieme di valori e pratiche si pretende ammantare di un’aura sacrale, proteggendoli così, per sempre, dalla critica.