Leonardo Sciascia è stimato dai siciliani tragici, ingannati dal loro amor proprio, e che credono di ragionare come lui. I più validi relitti in fatto di autocritica, allenati dall’istruzione media, esclamano «meraviglioso!», leggendolo. Nell’Ordine delle somiglianze, Sciascia definisce «curioso» che i ritratti dell’uomo siciliano a distanza di secoli non si interrompano e che mantengano «validità e verità». Le mannaie sciasciane (una specie di lectio perenne su come non essere complici dei propri risentimenti), sono però anche oggetto d’ammirazione per tutti quei cultori di una ragion critica-pratica «contro-siciliana». Il problema è che dire una parola in più oltre le tornite concezioni di questo scrittore è impossibile, ridicolo. Resta percorribile soltanto lo spazio dell’accostamento, tentazione a ruminare il perfetto già «rivelato», aggiungendo il proprio talentuoso pugno di sale sulla ferita: non sarebbe poco, considerando la prevalenza di troppe confidenze col lettore.
Il «contra-Sicilia» è un genere letterario maledetto, sindone testuale di ciò che i siciliani potevano essere e non sono stati. É divagazione estetica, un delirio di impotenza, pieno di rimorsi e lutti civili, capriccio che un po’ alla volta si sono tolti tutti, con risultati eterogenei in termini di affidabilità e precisione. Il motivo è che in un genere così, declinato a ritratto di qualche peculiare afflizione, ogni grammo «intimo» e autobiografico porta imbarazzi per rovinose derive elegiache, specie nei letali je me souviens que: pure i migliori cascano e in parte vanificano l’intento.
Ma se uno vuole essere non tanto siciliano anti-siciliano, quanto brioso psico-entomologo dei costumi e degli spiriti locali (un ‘risvegliato’, reporter illuminato su certe vanitose e crudeli atarassie locali), ha il diritto di astenersi da quel gioco delle parti col «self», in cui chi indica i malanni sente contemporaneamente la voglia (per giustificarsi ai suoi stessi occhi?) di annettere un «caro diario»; e ha il dovere di attirare le solite villane accuse di ingratitudine verso «l’isola che gli ha dato i natali». Ma mettono in vita i genitori, non i comuni o le regioni, quindi non siamo in debito con le astrazioni dei lungomare, degli agrumeti, dei fichi d’India. Veniamo al sodo: in Sicilia, vivere è un’idea, e come tale è una colpa.
Le idee, anche in quanto fantasie, devono venir meno, perché non sono un cespite e sono il contrario della cosa, della roba. Prendere iniziative estranee alla «roba» verghiana, si rivela in generale sbagliato, pericoloso, a meno che non siano timbrate da qualche autorità, anche familiare, o che non avvenga sotto precise catene o burocrazie. La roba di Verga è più che feudo, denaro o terreno, è «Cosa», religione al piombo di materialismo, istinto omicida verso ogni minimo elevarsi dal misero del fatto e del muretto a secco. La colpa di tutte le colpe, però, è la vita, va espiata, rinviandone l’esperienza all’aldilà. L’altra faccia della «pulsione», in alcuni esseri umani, non è quella della spinta o della forza, ma «dell’infinita sete di obbedienza» (Freud): sì, gli esseri umani possono essere assetati di obbedienza, uno ‘scandalo’, questo, che Freud solleva in Psicologia delle masse. Esiste una tendenza a preferire la schiavitù alla libertà. Il paradigma neolibertino si rovescia in quello securitario. Conta di più della libertà l’obbedienza, la sottomissione, in cambio della sicurezza.
Certe persone, possono preferire le catene alla libertà (tema spinoziano!). Spinoza infatti si chiede “ma come è possibile che si preferiscano le catene alla libertà?”, e Freud molti anni dopo risponderà che «trattasi di paradosso della pulsione securitaria», una forza di autoconservazione che preferisce «la protezione della vita rispetto alla vita». L’umano è aspirazione all’ossigeno della libertà: la pulsione si presta ad agevolare questo salto dionisiaco verso il “mare”, dice Nietzsche, l’affermazione della libertà come potenza, sperimentazione e sconfinamento, incontro con l’ignoto.
Ma il siciliano incarna perfettamente quel lato opaco e inquietante della pulsione claustrale/autoconservativa scoperta da Freud. «Come liberarmi della libertà? Come disfarmi di questo orribile peso e luogo d’angoscia?», si chiede il siciliano sempre in “fuga dalla libertà”, in regressione verso la tanatofilia narcisistica.
La vita qui è l’impresa più folle, esistere col desio è vizio da togliersi immediatamente, perché appunto distrae dalla «roba», dalle cose, dalla pietra, dalla tomba, e forse soprattutto perché sarebbe un incitamento contro il vittimismo (disposizione psicologica preferita dei siciliani). L’ingenuo dirà: «ma qui la prole si moltiplica!». Lo sciasciano oltraggioso replicherà: «certo, quale miglior modo per zittire la vita che dilagarla con biberon e vagiti, replicandola senza convinzione? Dando all’esistenza un’asfissiante forma di premio-produttività biologica?». I figli in Sicilia molto più che altrove si sfornano per tradizione, per competizione, tic superstizioso, regola previdenziale. Tanti a un certo punto comprendono finalmente di non essere tagliati per vivere la vita e allora delegano: «è tempo che lo faccia qualcun altro». Dunque, non far figli per affiancare vita ad altra vita, ma per aggirare la propria, protetti dalla facciata di un «traguardo». Altro modo infallibile per far tacere la vita, e quindi la parola, è il cibo, visto che non si parla con la bocca piena, specie di cose che richiedono partecipata concentrazione. Quindi ben vengano le bulimie di fritture, cassate, le crapule di pasticcerie e cannolifici, per silenziare le voci e colmare la pancia. Ma la sazietà, lo dicono pure i Veda, non riempie la vita, la spegne.
Non c’è alcuna lussuria in questo ingannevole «trionfo dei sapori», attraversato in disperazione più che per attitudine al vero piacere (suprema minaccia), piacere che va sperimentato nei suoi innocui surrogati: fugaci e intermittenti concessioni alla corporeità, unicamente nei meccanici e ripetitivi termini di stimolo e risposta. Pulsione senza desiderio, fisiologia primaria dove l’istinto è concluso a rango di necessità. Anche nella perversione e nella psicosi la pulsione non è vissuta: nella prima è mummificata, nella seconda non è propriamente sperimentata (se «vissuta» vuol dire «vissuta da un soggetto»). Pure l’altro, in fondo, va tenuto a distanza, nonostante sia realisticamente assai vicino. Perché è l’errore capitale considerare i siciliani «un grande cuore schiuso al sole e al vento».
Alcuni amici del Nord provavano stupore nel sapere che proprio in tante famiglie siciliane sopravvive (con la scusa delle buone maniere) il risibile vezzo feudale a oltranza del ‘lei’ ai suoceri, persino dopo decenni di compresenze nei reciproci tinelli e salotti, o di supporti emotivo/ospedalieri. La prossimità va regolata, lasciando fluttuare nell’aria quel velo arrogante di nascosta diffidenza. Anche qui, in queste leziose «forme di rispetto», vuote di senso e nesso col reale, si avvera il teorema del «purchè nulla cambi», già annotato dal Gattopardo (nota di dubbio: il tratto culturale che nega la realtà, perseguendone una tutta privata, fatta di illusioni di superiorità a dispetto del mondo fuori lì a provare il contrario, avrà contribuito a incoraggiare le perenni immondizie del Dugento?).
Questo anche perché in Sicilia basta veramente poco per sognare, vantare una sofisticata attitude personale, inventarsi e sottolineare «aristocrazia sociale» inesistente: una laurea, conquistare un certo posto di lavoro, coltivare abitudini cosiddette colte o culturali, discendere da comunissimi impiegati invece che da operai metalmeccanici o uscieri o panettieri o fiorai.
Tanti generalizzati miti romantici sui siciliani sono falsi, vanno abbattuti. Una caponata purtroppo non fa primavera e non «apre il porto», inaugura semmai il terzomondismo tribale del clan. Non si deve credere sino in fondo alla blandizia affettata dei padroni di casa, qui. Non basta aprire una porta per aprire un «portone».
Al momento opportuno, il fraintendimento iniziale di «open arms» verrà chiarito con severi paletti sulle ‘i’ e, se sarà necessario, sulle ‘z’. Questi «benvenuti!» e «si accomodi» non sono crepe nel privè, contatti, ma rituali egosintonici in cui l’ospite è specchio ideale per giocose vanità da strapaese. Ospite a cui va semplicemente dimostrato come si è scaltri a esibire i frutti di un’inutile operosità piccolo borghese, destinata a rimestare deprezzate cerimonie di presentabilità.
Quanto alla mammocrazia siciliana, si distingue per la sua convulsa oppressività psico-motoria. Dove le madri del Nord lasciano figlioli ruzzolare e sbucciarsi gomiti o culetti, vagare a gole aperte durante tormente di neve e grandine con gradi sotto lo 0, le mammone siciliane sorvegliano battiti cardiaci, comportamenti e andamenti, ricoprendo fino al soffocamento corpi altrimenti assiderati da questi perlopiù mitissimi inverni meridionali.
Ma leggendo le diverse scritture dedicate alla sicilianità, come argomento o come «metafora» (ancora Sciascia), uno si può domandare se interessano anche a chi siciliano non è mai stato.
Chissà se la gente sarà stufa di sentirne parlare, passando oltre appena legge la parola ‘Sicilia’. Se si è stufata è perché non ha capito l’argomento occulto che rappresenta (il dramma di lasciarsi morire lentamente), e il motivo forse è dovuto ad autori non sempre pronti a dichiararlo senza giravolte. Spesso si è servito, alternato a brillanti confutatis maledictis, un dessert di salsa masturbatoria insopportabile, nonostante le promesse di un sistematico ‘lucidi’ e ‘vigili’, lasciando in chi legge un sentimento di confusione. Cosa si può scoprire, a proposito del «vivere», leggendo i migliori ritrattisti di quest’isola? Che si può liberamente scegliere di essere morti da vivi. Si può provare molta nostalgia, a causa di una infelice memoria genetica di passate oppressioni storiche, per un benessere mai provato, e odiare se stessi fino all’exil intérieur. Si può capire che la «pulsione di morte» non è un dato intellettuale, ma bisogno attivo di mutilare la volontà d’Eros.
Suggerisco a chi vuol fare un contra-Sicilia di non chiamarla “terra” (più prudente “territorio”), sia perché si condannerebbe a un «sound Gianbecchina» (evocando tutte le abiezioni pittoresche: «succhi d’arancia», «girotondi tra le vigne», «sangue dei padri che scorre nei campi», «mare odoroso delle scogliere», «pescherie scintillanti al sole Mediterraneo», «mercati chiassosi», «il sudore acre dei coltivatori», «mamme che brulicano felici per le vie stringendo piccini e distribuendo pesci e pasta»), e sia perché farebbe scattare ingiustamente l’immagine di Eros, della bacchica generatività, ma anche del «Primigenio» che comanda e presiede tempeste. Tutte cose, queste ultime, che i siciliani non conoscono e non sanno, rappresentandone l’opposto.
Se i Siciliani volessero un giorno tentare la vita, dovrebbero rinunciare alla Sicilia come feticcio e volerla come soggetto, includersi veramente in ciò che lei è, arcadia a colori, movimento di rocce e acque fra luci e tenebra.
Però la roba è nata qui, e non a caso: tutto è ‘cose’, in Sicilia, e ciò che cosa non è (per esempio le persone), lo diventa per esorcizzarne il potenziale destabilizzante. Cose e case che saturano il Tutto: adorate, protette, meditate e rimeditate, abbracciate come unico «luogo dell’anima» per un’esistenza intera, a sua volta da dedicare a furiosi accaparramenti di realtà.
Vero è ciò che può essere toccato dopo essersi materializzato in quella sola forma accettabile e dignitosa chiamata Cosa. Il denaro conta, non per un culto esplicito della ricchezza, ma perché compra quella realtà che tanto bisogna. Questo perché c’è troppo e tutto insieme (quel «tutto troppo insieme» che fa impazzire prima Werther e poi Faust). In un colpo solamente, troppo paesaggio trasognato, troppo idillio ellenico-fenicio, troppi templi e troppo Mito, troppa altezza, e nelle menti più anguste questo produce follia, confusione e sfinimento.
«Cosa posso farmene, io feudatario dei miei ombelichi, di tanta estesa e mobile inutilità»?
Mentre qui lo Spirito della Terra goethiano si esprime a faville in miliardi di tasselli capaci di rimettere in piedi persino l’infermo di Betesda, la vita sprofonda nel grigio scuro. Troppo mare, sempre presente, giorno e notte davanti agli occhi, archetipo del mutamento oscuro, del mistero invisibile e incoercibile, ha scavato il bisogno dell’immoto, del piccolo stanzino? Delle «risposte utili»? Di qualcosa che, si è certi, non deluderà, perché si può gestire?