«Caro». Anzi «carissimo». A Roma ormai siamo tutti i cari di qualcun altro, specie degli sconosciuti: del barista, del tassinaro, del benzinaio, del commercialista, dell’avvocato. Buongiorno carissimo, che si dice? Epiteto trasversale, transgenerazionale, apparentemente affettuoso, trafugato dal registro epistolare: cosa ci dice il suo diffondersi, sempre più a sproposito, in questa città? È uno dei tanti modi che hanno i romani di affrontare lo sfacelo. I rapporti umani sono al minimo storico, la cittadinanza è insofferente a tutto, la città un cantiere a cielo aperto, intasata dal traffico – volano bestemmie ai semafori, i corrieri smadonnano, due gocce di pioggia e cadono i pini, le buche, la metro C, il bonus facciate, le poste italiane non funziona un cazzo, intelligenza artificiale salvaci tu, turismo incellofana-bellezza, la transizione ecologica passame l’olio.
Carissimo, sono 22 euro. Simulazione di vicinanza, di affetto, di comunione nella miseria, di uguaglianza. Carissimo è il modo in cui si finge un’empatia che non c’è. In pratica è prendersi in giro. È una sottilissima forma romana di prendersi e farsi prendere per il culo. A Roma infatti siamo maestri in quest’arte. Non c’è città dove la derisione del prossimo si sia sviluppata nella sua forma più cristallina, crudele, spietata. Roma ti mortifica, Roma ti umilia. C’è un enorme letteratura su questo tema. A partire dal carteggio di Giacomo Leopardi con amici e parenti durante il suo soggiorno romano (nel 1822), da cui tornò amareggiatissimo, notando «l’orrendo disordine, la confusione, la minutezza insopportabile, la trascuratezza indicibile» di una popolazione «dissipata, oziosa, e senza metodo». La cosa che più soffrì Leopardi fu però l’indifferenza: «l’attirare gli occhi degli altri risulta impresa disperata». Persino «al passaggio in chiesa, per le strade non trovate una befana che vi guardi. Son passato spesse volte con amici belli ed eleganti vicino a donne giovani; le quali non hanno mai alzato gli occhi, e si vedeva che ciò non era per modestia ma per pienissima indifferenza e noncuranza».
Un secolo più tardi, nel 1913, un giovane Giovanni Papini, al Teatro dell’Opera di Roma, presenziando a un meeting futurista, parlava più o meno delle stesse cose, di una «città ch’è tutto passato nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologismo cronico, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale, rivolta innanzi e non sempre indietro».
Roma è il regno della massima tolleranza quindi della massima indifferenza. Un posto dove tutto sommato (ed è questa la causa della sua paralisi) si vive bene, come diceva Fellini, appunto perché ci si può nascondere, si può passare inosservati, ma è un attimo che si scivola nell’apatia. E i romani sono una combinazione di pasta e disemozione, disaffezione, disincanto. Troppe vestigie di passate glorie, troppa storia, troppi antiquari, troppe ingiustizie e soprusi hanno piallato il subconscio del romano, estraneo a qualsiasi entusiasmo, mosso al massimo da una passione che, come per il calcio, si confonde sempre con il pianto, ma senza la teatralità napoletana, anzi un pianto nudo, infantile, superfluo. «A marzia’ che ce l’hai una sigaretta?», è così che un passante – archetipo romanesco descritto da Ennio Flaiano nel suo racconto più celebre – esaurita la meraviglia iniziale per l’arrivo a Villa Borghese di un extraterrestre, finisce per interrogarlo.
Come si può portare avanti un qualsiasi progetto in questa città che non crede in nulla? Come si fa a prendersi un minimo sul serio? Specie se questo progetto non riguarda passioni sessuali o gastrointestinali (che tutto ruota intorno alle viscere, al basso ventre, al verbo «cacare») o calcistiche? «A che ora c’è la rivoluzione? Come dobbiamo venire, già mangiati?»: la Terrazza di Scola ci insegna quanto i romani siano da sempre ostaggio delle «ore pasti». Roma è un grande ristorante allargato su strada, sotto tendoni in plastica (che il romano vuole stare fuori), e su Instagram l’unico trend autoctono è quello della “vera” ricetta della carbonara o dell’amatriciana («er guanciale me raccomanno»), quando non si tratta di travel content su luoghi “nascosti” da visitare «aggratis», ça va sans dire.
«Non c’è niente di nuovo sotto il sole» della capitale, da millenni ormai, perché l’occhio del romano è impossibilitato a percepire la novità, e persino lo scandalo si riduce sempre a gossip (Dagospia docet), a scusa perfetta per uscire a prendersi una birretta rivoluzionaria. È rivoluzionario il collettivo che fa stickers e li appiccica nei cessi, è rivoluzionaria la discoteca x, quel gruppo di pischelli che fa le magliette a Portonaccio, a Serpentara la crew che trappa è considerata sovversiva. Tutto è rivoluzionario, basta un minimo movimento per passare da ribelli, purché non implichi attività nelle «ore pasti», a tavola, dove qualsiasi proposito tramonta già verso il primo, si affievolisce al secondo, si spegne al caffè, e si ritorna all’attività principale, quella di riuscire a lavorare il meno possibile.
Lo aveva capito benissimo Umberto Bossi, che obbligava i suoi parlamentari a rientrare al Nord nel fine settimana, in modo da soggiornare il meno possibile a Roma, evitando le sue trattorie, i suoi locali notturni, le sue lusinghe. Forse l’Italia potrebbe diventare un grande Paese (ma chi ce lo fa fare?) se trasferissimo tutti i ministeri e la pubblica amministrazione in generale a Piacenza, dove i funzionari pubblici potrebbero finalmente prendere sul serio le loro mansioni. Qui, invece, è impossibile. Neanche la morte riusciamo a prendere sul serio: «sento il fiato della morte sul collo», diceva Mastroianni moribondo al fratello, che risponde: «e mettite ‘na sciarpetta». Solo la Chiesa riesce a operare da qui, solo Dio riesce a fare impresa da Roma.
E se la Capitale gode ancora di un minimo di considerazione nell’immaginario collettivo (al di là dello stereotipo «puttana e santa») è esclusivamente per la sua capacità di produrre satira, sarcasmo, ironia, per la sua produzione memetica. Ma l’ironia, in tempi di enormi vuoti di potere, quando non ha un indirizzo contro cui rivolgersi, è la guardiana dell’impotenza, è l’ancella di ogni nevrosi (Zerocalcare è la personificazione di tutte le nevrosi romanesche). Non resta quindi che lamentarsi, forma assoluta di esorcismo, in attesa di un’impossibile rivoluzione. Anche se in Italia, dice Longanesi, «non si potrà mai fare una rivoluzione, perché ci conosciamo tutti». A Roma si può fare meno che altrove perché siamo tutti «carissimi».